Le Cinque Rose di Jennifer

GEPPY GLEIJESES E LORENZO GLEIJESES

In LE CINQUE ROSE DI JENNIFER

Di Annibale Ruccello

Regia Geppy Gleijeses

Voce della Radio Nunzia Schiano

Voce di Sonia Gino Curcione

Voce di Annunziata Mimmo Mignemi

Voce del giornale radio Myriam Lattanzio

Scene Paolo Calafiore

Costumi Ludovica Pagano Leonetti

Light Designer Luigi Ascione

Colonna sonora a cura di Matteo D’Amico

Aiuto Regia Roberta Lucca

Trucchi Chris Barone

Parrucche Francesco Pogoretti


Mettendo in scena una commedia che ha per protagonisti due travestiti, credo si debba fare una riflessione a monte molto chiara e approfondita. Spesso soffermandoci ad analizzare parole che normalmente pronunciamo senza pensare, possiamo aprire squarci illuminanti sul loro significato. “Travestito” è una parola molto precisa ed indica, come sostantivo, “l’omosessuale maschile che si veste da donna e talvolta si prostituisce” e come aggettivo o participio passato del verbo “travestire” colui che nasconde la propria vera natura assumendo idee e atteggiamenti profondamente diversi dai propri”. Ecco che l’essere attore come l’avere assunto o finto l’identità femminile implica un processo già avvenuto di “travestimento” morale e fisico.

Il travestito, ne ho frequentati tanti e negli anni in cui Annibale scrisse “Jennifer” sono stato amico di alcuni, recita la condizione femminile in ogni senso, comportamentale e fisico, è una creatura di confine, “figura deportata” come definisce Ruccello i suoi personaggi, non è un transessuale, non ha fatto il grande salto, vive la sua condizione generalmente in modo doloroso e comunque iperbolico, toccando gli estremi della depressione e dell’euforia, creatura meravigliosa, fragile, delicatissima, a volte violenta ma sempre emarginata. Come Pulcinella non è né bianco, né nero e viene rifiutato dai bianchi perché mezzo nero e dai neri perché mezzo bianco, il travestito non è un uomo, né donna ma una creatura preziosa, un’anima ermafrodita. Dobbiamo quindi considerare che, evitando la “maniera” (anche se Ruccello invita nelle note a mantenere una cantilena napoletana) e naturalmente il macchiettismo, interpretiamo personaggi sovente debordanti che già interpretano a loro volta un ruolo e una condizione. E quindi si deve essere attentissimi a non raddoppiare il travestimento e quindi l’interpretazione.

Abbiamo scelto quindi un connotato di base assai realistico; la casa, le piccole cose che ci circondano, i feticci, la colonna sonora, i cibi che cuciniamo, gli odori che sentiamo. Su questa base Jennifer e Anna, dopo che abbiamo tentato di dare a loro verità e dignità, ci hanno portato nell’universo di Annibale Ruccello che dalla meraviglia di un’orrida quotidianità ti proietta in una condizione espressionista di grande disperazione, inframezzato da pochi attimi di euforia. Come voleva Annibale il processo interpretativo di questo caso, non deve essere lo straniamento, non è l’attore che scherza su Jennifer, è Jennifer che guarda se stessa. Un gioco molto più complesso, più sfumato di rapporti. E alla fine del nostro spettacolo, davanti alla sua “toletta” struccandosi, Jennifer si spoglia dalla sua condizione di travestito (e l’attore che la interpreta nello stesso istante si stacca da lei) ma per lei non c’è vita oltre quel distacco poiché, e questa è la profonda differenza, quella sua finzione è la sua verità, l’unica possibile.

C’è ancora tanto da dire su Ruccello, perché aldilà di alcune lucide analisi, ancora l’emozione fa velo sull’approfondimento della vera natura di questo grande autore. Di lui si deve dire però che tra i contemporanei di caratura importante, quasi tutti napoletani, egli aveva questo senso straordinario della composizione drammaturgica, più che della brillantezza del linguaggio, della “crastola” linguistica abbagliante (che pure aveva in larga misura). Annibale possedeva questo dono singolare di costruire delle strutture perfette di commedia e di dramma, delle storie circolari e complete in cui riusciva a calarci con la sapienza di un talento folgorante per un ragazzo di venticinque anni. Annibale è morto a trent’anni, oggi avremmo la stessa età. Il rimpianto, la stima, il dolore e lo stupore per una sorte così assurda non si sono attenuati in questi anni e non svaniranno mai.

- Geppy Gleijeses